Le Cucine del Popolo. 20% di Gastronomia 80% di Anarchia

Secondo Joseph Conrad soltanto i libri che “trattano di cucina sono, da un punto di vista morale, al di sopra di ogni sospetto […] lo scopo di un libro di cucina è unico e inequivocabile. Non è concepibile che abbia scopo diverso da quello di accrescere la felicità del genere umano.”.
È forse per questo che al giorno d’oggi il cibo è diventato un punto nodale della lotta politica incentrata sulla definizione del concetto stesso di felicità. Partendo da come si produce a come si cucina e infine a come e con chi si mangia il cibo si manifesta come un arma potente per il dominio e lo sfruttamento, creando divisioni tra le persone, allontanandole di fatto l’una dall’altra accomunandole senza però avvicinarle. Dall’altra parte, come dice Rino de Michele, “si propone di caratterizzare condizioni e storie alternative al sistema del mercato liberista; transita per vie di fuga irregolari, incoraggia una costante conflittualità. Ogni alimento, per essere veramente tale, ha bisogno di un ambiente sano e pulito; ha bisogno di una società egualitaria che pone al centro della sua morale, del suo procedere non lo sfruttamento e il consumismo smodato ma il rispetto, la giusta considerazione per ognuno.”.
Massimo comun divisore tra classi, storicamente il cibo ha aiutato a stabilire la “giusta” distanza tra il popolo e l’aristocrazia prima e la borghesia dopo, ovvero le classi dominati che avevano la disponibilità economica, il tempo e il gusto di operare scelte in cucina, di elaborare una gastronomia, di affidare al cibo valori di distinzione sociale. I contadini e la nuova classe operaia invece, ci ricorda Andrea Perin, “erano costretti ad un’indigenza che spesso viene dimenticata dalla retorica dei “bei tempi andati”, e, pur in possesso di proprie consuetudini gastronomiche, ambivano ad accedere all’abbondanza e ai piatti delle classi dominanti. Per secoli l’abbondanza fu un sogno, un mito come quello del Paese della Cuccagna.”.
Simbolo di agiatezza il cibo diventa, dalla rivoluzione industriale in poi, parte della lotta contro “il Capitale”, obbiettivo primario era superare la fame e affossare il “padrone” che in ogni vignetta o manifesto, pensate solo agli Wobblies, era sempre grasso e intento o a contar soldi o a mangiare avidamente. Con l’arrivo di un grado di alimentazione “sufficiente” per la maggior parte della popolazione, almeno nell’Occidente e soprattutto nel secondo dopoguerra, arrivano la cucina casereccia e il pranzo familiare, che tanto devono a quell’arte di arrangiarsi contadina e operaia del passato. Il cibo acquista un alto valore simbolico e diventa elemento cruciale della condivisione domestica, un vero atto di amore che crea forti legami.
Dagli anni ‘80 in poi le riflessioni politiche e le conseguenti rivendicazioni e lotte legate al cibo si moltiplicano e si disarticolano, pur partendo dagli stessi presupposti. L’espansione della tecnologia avanzata e dell’iperlavorismo ha modificato drasticamente le abitudini, i gusti e i consumi culinari. Il pasto familiare, soprattutto il pranzo, perde il carattere di quotidianità in famiglia e viene sostituito con il consumo veloce di cibo, partendo dai bar, passando per i fast food arrivando ai distributori automatici. Il cibo dell’“homo comfort”, così ben delineato da Stefano Boni, diventa il frutto di filiere alimentari globali, produttrici di alimenti preconfezionati e durevoli, precotti o congelati che siano. I prodotti freschi vengono via via sostituiti da questi nuovi beni, più economici e comodi; con istruzioni di cottura ben precise, anche nelle loro possibili variazioni, e che sono già stati controllati da qualcun’altro sia per scadenza che per qualità. Il cibo generato in maniera industriale, tramite processi centralizzati, anonimi e seriali, colonizza progressivamente i panorami sensoriali. Il gusto, attraverso le tecniche industriali di allevamento e agricole, subisce una omologazione e il sapore non è più legato al prodotto in sé ma al marchio associato e al suo bagaglio distintivo di correzioni artificiali.
Con il progressivo allontanamento dalla lavorazione diretta di prodotti freschi, si assottigliano saperi, pratiche e luoghi della gastronomia, o meglio vengono affidati alla “programmazione emmerdosa”, citando l’anarchenologo Veronelli, di cuochi superstar che sgomitano tra uno spot pubblicitario e l’altro. La “vera” lotta in cucina è quella tra cuochi o tra dilettanti per diventare professionisti, unici depositari di una cucina che può e deve stupire, che deve essere vissuta come un’esperienza in sè, per dare l’impressione dell’inesitenza dell’omogeneizzazione.
Contro la cucina industriale fatta di chimica e di iperteconologia alcuni, come SlowFood, hanno rivendicato la democratizzazione del godimento del cibo, tentando di proletarizzare il prodotto di nicchia o di qualità biologica certificata, ma, di fatto, riuscendo solo a inserire nel sistema consumista questi “prodotti resistenti”, facendo sì che il mondo del naturale e del biologico diventasse solo una questione di marketing, invasivo come qualsiasi altro brand industriale. Questa strategia basata comunque sulla distribuzione di tipo capitalista non ha fatto altro che allargare la platea di consumo, ma non così tanto da poter includere le classi economicamente più disagiate. Il proletariato, i migranti, i precari, rimangono spesso legati all’economicità dei prodotti, leggi grande distribuzione, e quindi all’adesione al modello proposto dalla società dei consumi.
A questa massa di sfruttati si rivolgono le Cucine del Popolo di Massenzatico. Attraverso le innumerevoli iniziative, convegni, e incontri ci hanno fatto capire che mangiare e bere non sono solo una necessità biologica, e che glii atti alimentari sono fatti culturali, parti di discorsi sul mondo. La complessità e la varietà dei discorsi e le dinamiche economiche a cui sottendono richiedono, una presa di posizione politica. Ci hanno fatto capire che pur affondando le radici nella “tradizione”, riscoprendo le migliori ricette della tradizione sociale – le tagliatelle dell’Internazionale, le insalate dei comunardi, i cappelletti antifascisti o i tortelli socialisti, fino alla cucina dell’utopista – questa non viene mai considerata nella sua veste conservatrice e immutabile ma pronta ad arricchirsi meticciandosi con chi proviene da altri luoghi della terra, siano essi vicini o lontani. Hanno messo in evidenza come il cibo sia uno dei campi privilegiati, assieme al sesso, per l’applicazione del vizio di proibire; usando le parole di Veronelli il cui impegno e affetto per le Cucine è indubbio: “le proibizioni alimentari vanno in generale di pari passo con discriminazioni di ceto, sesso, età e sono consonanti con altri divieti: di bere alcolici di fumare canapa, di fornicare, etc. Quello che appare costante è la volontà di mortificare, costringere, imbrigliare il piacere del corpo. Cioè la sua libertà.”
Le Cucine ogni giorno ci ricordano che la tavola è un luogo di incontro, confronto, contaminazione, di ritorno alla semplicità e spontaneità dei rapporti. Andare a ricercare le proprie radici dunque, non significa vagheggiare la cucina vernacolare ma riappropriarsi dei luoghi della tavola proletaria: le camere del lavoro per i veglioni socialisti, le cucine comuniste dei sindacalisti rivoluzionari, le osterie senza oste degli anarchici e le vecchie cameracce dei repubblicani. Non a caso la sede storica delle Cucine è la Casa del Popolo di Massenzatico. Luoghi del vivere sociale in cui le relazioni sono le protagoniste. Perché le ricette in loro non sono nulla di speciale, speciali sono le persone che le cucinano per condividerle. È per questo che le Cucine del Popolo sono un inesauribile laboratorio sperimentale – unico nel suo genere – ed hanno saputo unire gastronomia e convivialità, solidarietà e aggregazione, autogestione e autoproduzioni, attraverso il loro “stile libero” vivono della loro organizzazione che parte dal basso, a carattere assembleare, zero profitti, tanta solidarietà e nessun finanziamento pubblico.
Forse ha ragione Luther Blissett quando scrive: “la “deformazione” (degli anarchici) ci è nota, sono convinto che ogni cosa deve avere un senso, un significato etico di denuncia sociale; lasciarsi sfuggire la loro particolare idea sembrerebbe una grave negligenza. Anche attraverso la gastronomia si possono cambiare le abitudini e il gusto e soprattutto le relazioni creando persone consapevoli pronte a rivendicare e organizzare l’accesso per tutt* a un cibo genuino, il più possibile fuori dalle logiche di mercato e libero dallo sfruttamento. La cucina diventa quindi spazio di rivendicazione politica e di costruzione di autonomia, pur rimanendo nella migliore tradizione socialista, utile strumento per l’autofinanziamento ed il finanziamento di lotte comuni. Umanità Nova è in comunanza non da oggi con lo spirito che anima le Cucine, sempre vicine agli sfruttati e sempre pronta a dare il suo sostegno all’editoria Anarchica. Sabato 18 novembre, i compagni e le compagne reggiane organizzano una festa di finanziamento per Umanità Nova, sarà come sempre una giornata intensa e ricca di emozioni. Ci saranno discussioni, condivisioni di progetti, ottimo cibo e le canzoni di Alessio Lega. Cosa si vuole di più per passare una bella giornata ed assaporare un po’ di quella felicità conviviale e solidale, che vorremmo diventasse la nostra vita quotidiana.
Cristina

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